martedì 27 agosto 2013

La dea



 Dal libro dei racconti improbabili, ma non impossibili

                                                                                                                        200000 a.C.
Leila faceva parte di un piccolo branco. Camminava con molta attenzione  guardando bene dove mettere i piedi nudi. Nulla   le sfuggiva di quel succedeva sul terreno e così doveva essere, perché la sopravvivenza, allora, era la terra e ben  poco il cielo. Il sole lo percepiva comunque, anche con gli occhi bassi: caldo invadente quando c’era, gelo e buio quando non c’era.
C’aveva messo del tempo,  ma a forza di guardar per terra,  aveva imparato a cogliere le piante giuste e a selezionarle. L’olfatto acutissimo l’aiutava a percepire gli aromi giusti: sapeva riconoscere le piante velenose senza toccarle, senza quasi vederle Quell’odore amarognolo, che sapeva di morte, colpiva le sue narici mettendola in guardia.
 E intanto le giornate passavano, ed erano molto intense. Ogni giorno si faceva una scoperta.
Vivere era faticoso, il lavoro continuo e Leila si chiedeva se fosse stato  proprio così  necessario quel salto evolutivo.
Naturalmente  non erano esattamente questi i termini del suo pensiero. Che ne poteva sapere di evoluzione una donna all’alba del mondo?  La sua era solo un po’ di nostalgia per il passato,  quando tutti loro avevano le braccia un po’  più lunghe ed erano un pochino più pelosi, ma sembrava che: vivere fosse più facile, tutti si amassero di più e il mondo fosse un posto migliore. Anche quel camminare a due zampe era stata una conquista recente e terribilmente faticosa: la sera, la schiena era a pezzi e Leila provava invidia per la tribù delle scimmie, che aveva continuato a vivere a quattro zampe. Invidia e rabbia, che attanagliavano  lei e il suo branco quando si trovavano di fronte quegli esseri così simili, che competevano con loro, per il cibo e il territorio. Invidia per gli animali, tutti gli animali, che sì, è vero, non avevano capito tutto quello che sapevano loro, ma che, proprio per questo, sembravano più felici.
Bisognava distruggerli, loro e gli altri che occupavano la terra, quella terra, che bastava a mala pena al branco.
E fu così, per invidia, che inclusero tra le loro attività, l’uccisione di un po’ di quelle bestiacce troppo felici:  un po’ di più di quelle che realmente  sarebbero servite  alla loro sopravvivenza.
Leila non conosceva  la notte. All’imbrunire si nascondeva, con il resto del branco, nelle caverne: in fondo, molto in fondo, nel buio completo. E lì dormivano, assieme, profondamente, abbattuti dalla stanchezza del quotidiano.
Nessuno  conosceva l’insonnia: non dormire significava non avere la forza di vivere il giorno dopo.
Una notte però successe qualcosa di strano. Leila si svegliò e  sentì un desiderio irrefrenabile di uscire dalla grotta. Più tardi, molto più tardi,  questo impulso sarebbe stato catalogato, con una certa sufficienza, come curiosità tipicamente femminile, ma quella notte, la curiosità ci portò molto in alto. 
Quando uscì e guardò il cielo, Leila non respirò per alcuni istanti. La meraviglia, lo stupore le avevano fatto dimenticare le funzioni vitali. Vide il buio, vide miriadi di piccole luci e soprattutto vide Lei, un oggetto luminoso bellissimo.

  La donna, allungò le braccia come per sfiorare  la cosa luminosa. Voleva prenderla, toccarla stringerla a sé come  fosse una sua proprietà. Ma le mani tornarono vuote.
Una dea:  non poteva che essere una dea quella luce fredda, bianca, inafferrabile. Leila si inginocchiò, ma non chinò il capo. Lei era troppo bella perché si potesse smettere di guardarla.
   E così Leila ora sapeva che la notte aveva la sua divinità  e quelle luci, che appena illuminavano il buio profondo senza scaldare la Terra, ma solo il  suo cuore, dovevano essere le sue compagne.
Non l’avrebbe detto a nessuno: non quella sera. I riti collettivi  a più tardi, quando si fosse sentita pronta a  condividere la scoperta con tutti quelli del branco. Anche con quell’odioso uomo grasso che, con la scusa di essere il più forte, pretendeva di comandare. Erano discussioni infinite. No, la dea sarebbe stata solo sua, almeno per un po’.
 Rimase perciò lì con il naso per aria ancora per molto tempo. Era davvero un peccato che non sapesse scrivere: un po’ come ci vorrebbe la macchina fotografica. Le cose, quando servono, non ci sono o  non sono ancora state inventate.
Se non fossimo stati così indietro con la comunicazione,  Leila, quella sera, avrebbe composto una lirica, che i posteri avrebbero conservato come la più alta delle espressioni umane.
La donna ritornò fuori dalla grotta  la notte successiva e le altre dopo, camminando sempre silenziosa e preoccupata per il rumore del suo cuore che le pareva troppo forte, così forte da poter svegliare qualcuno. Non certo il ciccione, che  di notte dormiva sodo.
Vide così la Luce cambiar la sua forma, rimpicciolirsi notte per notte, come se qualcuno la stesse rosicchiando. E si preoccupò. Ormai la Luce era una sottile falce nel cielo. E se fosse scomparsa per sempre? Se davvero un misterioso mangiatore di raggi l’avesse inghiottita? O peggio,  se fosse stata lei a causarne la fuga?
Anche le donne primitive avevano l’abitudine di colpevolizzarsi: questo atteggiamento è innato, come la poesia.
 La disperazione la colse, la sera in cui della Luce non ci fu più alcuna traccia.
Leila pianse al punto di finire le lacrime.
Le giornate divennero pesanti per lei, che deperiva a vista d’occhio. Il  branco se ne accorse e alcuni pensarono  che presto avrebbero  dovuto fare anche il suo lavoro, ma che avrebbero  anche  potuto occupare i tutti i suoi spazi. La morte non suscitava troppi problemi  agli umani appena evoluti.
Poi, una notte, Leila rivide la Luce anche se sottile, evanescente arco. Subito  pensò che le sue lacrime avessero convinto il mangiatore di raggi a risputarne i pezzetti e quando, notte dopo notte, il ladro misterioso  li ebbe rimessi lassù, tutti,  lei fu così felice che  svegliò il branco e  li condusse
 fuori, a guardare quella meraviglia. E allora gli uomini uscirono e ammutoliti  si inginocchiarono.
 E  così,  la Luce della notte  divenne dea e il magico fluire delle sue forme regalò agli uomini, una delle chiavi delle infinite porte del Tempo.

Questo post partecipa al 3° Carnevale della Letteratura ospitato da Maria Cuccaro su Skipblog


domenica 25 agosto 2013

Tempus fugit







Suzanne Valadon autoritratto 
Tempo
Il mio volto  è cielo che ha rinunciato alle stelle
Nero uniforme e scialbo 
di stoffa troppo lavata
da pioggia e lacrime .
il mio volto è il pallido riflesso di un ‘anima
che respira appena
illuminata dalla tenue fiamma
di una candela ormai finita
il mio volto è proprietà del tempo
 che lo ha accartocciato
ormai rigato dallo strisciare
di implacabili e cieche ore.
II mio volto.
Mille i frammenti
Di quello specchio 
che non sa neppure mentire















mercoledì 21 agosto 2013

Le stelle



Le Stelle


Lo sguardo al cielo: un gesto che, ai più, può regalare al massimo un attimo di stupore nelle sere d’estate, quando le stelle sembrano  decise a dare il meglio di sé e brillano, nonostante le luci della città, brillano nonostante quella fastidiosa nebbiolina, che le rende tremolanti nel buio, come signore un po’ oltre l’apice del loro splendore. Eppure, quello sguardo potrebbe superare la meraviglia, entrare nel mistero e divenire   uno sguardo all’origine, all’infinito da cui proveniamo, all’arcano che ci vuole polvere degli astri. Ecco dunque che, chi sa, si immerge in  una marea di pensieri, di brividi, di nostalgie, di sensazioni, di emozioni, ogni volta che il buio arriva e il cielo si inonda di stelle .
 E Maria sa, sa che lì c’è la chiave, il segreto di questo cammino, il segreto dell’anima. Eppure, non è una strega, né una fata e neppure un folletto: niente di magico, insomma. Niente a che fare con l’occulto, con i riti del plenilunio o con le sacerdotesse di Iside. Lei, le stelle le studia; lei, donna del duemila, le stelle le cerca nella notte, ne spia le voci, i colori, ne segue la morte e traduce i messaggi che ci portano dal passato. Perché  le stelle sono la voce o meglio, la luce del passato e gli occhi vedono luce, che più non è. Una sorta di allucinazione, quella che si ripete ogni notte, testimonianza di Ere trascorse, che hanno lasciato lì l’estremo messaggio o, forse, un  monito per chi c’è e vuole coglierlo.
  A questo punto, potremmo definire Maria: una lettrice del passato. Poco può dire sul futuro, misterioso più che mai il presente, ma le stelle ogni notte le portano un frammento da ciò che fu, dal prima, prima del tutto, prima dell’ essere. Numeri, picchi oscillazioni, rumori di fondo, il complesso linguaggio della scienza che lei, novella aruspice, traduce, interpreta e tramanda per la conoscenza dei pochi, che sanno ascoltare.
 E così Maria vive; guarda le stelle, pensa , sogna e come tutti, litiga con i sottili, fastidiosi fili, che la legano al quotidiano e alle uggiose azioni, che accompagnano la vita,  in particolare quella di una donna. Perché lei, la donna, la derivata di Adamo, in definitiva, la costola, è continuamente in bilico fra la forza gravitazionale, che agisce su di lei con particolare accanimento, tenendola incollata alla terra  e l’irrefrenabile impulso dell’irrazionale, che la spinge in alto, altissimo  per attimi brevi, istanti, che rendono poi ancora più dolorosa la ricaduta. A rendere ancor più problematico  uno scenario  già sufficientemente complesso, c’è anche l’amore, la necessità irrefrenabile di prendersi cura di qualcuno o in mancanza, di qualcosa. L’amore, che funziona in lei come forza dominante ed è in grado di capovolgerle tutte le scale di valori. Scale che sono faticosamente costruite  con i sogni della ragazzina, ricette sicure per la felicità: altissime con all’apice lei, donna in carriera, e lui, il principe azzurro. E le scale poi, inevitabilmente, scivoleranno nelle mani Amore che, architetto ben più violento del Tempo, compirà le modifiche, abbassandone drasticamente l’altezza e ritoccando qualifiche e  nobiltà della coppia apicale.
 E  anche per Maria è così. Non può dedicarsi solo alle stelle ed ignorare la parte prosaica della vita, e neppure può rassegnarsi al vuoto di affetti nel quale è precipitata. Perciò, fra il calcolo dell’esatta posizione di una stella, o lo studio dello spettro di una nana bianca, svolge anche tutta quella massa di cose ripetitive, ma purtroppo non inutili, che servono per vivere e piange, soprattutto ora, che la navigazione è  diventata troppo difficile ed è sola al timone. Come per tutti , quindi, anche per lei, gioie poche o forse più facili da dimenticare, dolori tanti, feroci, incancellabili. La vita tipo dei più: noiosa, forse inutile, e nell’inconscio di ognuno, mai abbastanza lunga.
Ed anche in questa vita assolutamente uguale ad altre, arriva la notte, il momento più difficile per vivere soprattutto se la luce, che s’accende nella stanza, non illumina che silenzio e solitudine. Per questo, molte notti  Maria le passa lì, all’ osservatorio e quello spazio seppur piccolo, che l’accoglie all’imbrunire, le è caro, molto più della sua casa, i cui spazi si sono improvvisamente dilatati; una sorta di espansione all’infinito che in alcuni momenti le fa sperimentare la sensazione del vuoto, quello vero, quello che attanaglia lo stomaco e impedisce di respirare.
 E lì, nello studiolo, sulla sua scrivania, accanto al computer, alla fotografia, al fiore, c’é una carta dei tarocchi, un trionfo,o meglio, un arcano: le Stelle. A Maria quella carta piace e le piace anche la parola: arcano. Molto più di mistero, arcano sprofonda la mente nel buio impossibile, come infinito, come vuoto, come eternità. Tutte parole, queste, che la mente non può cogliere pienamente, parole che, non possono essere evocate senza che il pensiero prenda coscienza dei suoi limiti..
La giovane della carta, con abiti ricoperti di ricami dorati, che tiene in mano con leggerezza una stella a otto punte potrebbe rappresentare proprio lei che, nelle sue mani stringe il segreto del cielo.
 C’è però qualcosa in quella fanciulla dai tratti nordici, che la lascia perplessa. A guardar bene, l’espressione del suo viso sembra molto triste e lei, quasi prossima alle lacrime, quasi come se una punta di quella stella, che tiene in mano l’avesse ferita. E a Maria viene in mente che, se la Stella è il passato, probabilmente può  essere doloroso cercare di afferrarla o peggio, di trattenerla.
 Il passato. Puoi solo lasciare che si appoggi dolcemente nei tuoi pensieri, libero e pronto a fuggire o a rotolare lontano, quando meno te lo aspetti. Pensi che sia tuo, ma neanche quello ti appartiene.  

Improvvisamente in  questa storia irrompe una particella, un’avversativa, un ma, che promette, attesa, mistero, arcano.
Ma.
 Quella notte non è come le altre: non sono previsti allineamenti speciali, non sono previste eclissi, non è prevista neanche la luna, eppure qualcosa c’è, al di là di ogni previsione.
 Il cuore di Maria  batte, furioso, irrefrenabile, come in attesa di un grande evento. Neppure quando pensa che a brillare al di là della lente del telescopio potrebbe essere una stella mai osservata prima e che un giorno potrebbe portare il suo nome, il cuore è così presente. Presentimento? no, sciocchezze. Lei, la scienziata, cerca una spiegazione più prosaica: non avrebbe dovuto bere quell’ultimo caffè. Ma quella bevanda nera, calda è un conforto irrinunciabile quando i conforti sono pochi e di questi, il caffè è forse il più efficace.
 Però il cuore in gola è veramente scomodo per chi deve passare una notte a misurare ed ad interpretare. Le tempie martellano e non permettono di concentrarsi.  Maria respira profondamente: un po’ di ossigeno dovrebbe calmarla.
Ma.
Ancora l’avversativa.
 Le pare di udire un rumore . “Sto diventando anche paranoica. Maledetto caffè”
E  maledetta avversativa.
 Il rumore è sempre più vicino, sono passi? “Sono sola questa sera, passi di chi ? C’è nessuno ? C’è nessuno?”.
Ora, il silenzio: sola come sempre, dunque.
 Un tempo non era sola: un tempo le stelle le guardava con … Una stretta al cuore, fortissima, un dolore profondo di nuovo, in gola. Quel nome non poteva essere evocato, non poteva essere neanche pensato, senza dolore,  dolore fisico, non solo dell’anima.
 E improvvisamente le pare di risentire le sue parole: “Guarda lassù, la mia casa”, il telescopio puntato verso un punto nebuloso della costellazione di Orione, la culla delle stelle , “lassù ci sarà la mia eternità”. Poi, insieme cercavano una stella vicina, per la casa di lei .Vicina! anni luce di distanza; inconsciamente, o forse no, sapevano che anche la morte non avvicina più di quanto non possa fare la vita. E dopo arrivavano i pensieri filosofici. E parlavano, parlavano nelle lunghe notti.

Maria sorrise pensato alle fantastiche teorie che elaboravano e cercò con lo sguardo la pianta di violette africane, sempre fiorite. Era la sua pianta e, mentre guardava i vellutati fiori blu, le pareva di sentire quella  voce mentre  spiegava, con convinzione, come   i vegetali fossero gli esseri che,  se  proprio fosse stato necessario mettere in scala le forme di vita, avrebbero avuto diritto al primo gradino, quello più alto:
“Sono gli unici -diceva- che sanno immagazzinare i raggi della nostra stella diurna, e li sanno trasformare in cibo e, nei millenni, in sostanza fossile.”
 Ma, per quanto così essenziali, raramente lui si ricordava di annaffiare quelle violette e la loro preziosissima esistenza era nelle mani di Maria.

Maria guardò il cielo. Chissà, forse ora un po’ delle sue particelle  sono lassù, forse è lì che un po’ di lui brilla.
 Solo un po’ però, perché molto è qui:
 “Qui, adesso, vicino a me, e ne sento il respiro caldo, che pure mi fa rabbrividire, vorrei sentirlo ancora quel brivido, per sempre”  
A volte l’immaginazione è consolatoria: l’immaginazione.
Ma.
 La pelle è davvero increspata e il cuore salta.
 “ Il mio cuore, dove sarà ora, il mio cuore. Non ce l’ho più addosso”.
 Maria prova ancora a combattere con quella che lei vuole sia solo  suggestione
  “I miei capelli si sono mossi, ma  non c’è vento, le stelle non tremano e allora che cosa.?”.
Chiude gli occhi. Per riposare o per assaporare questo istante, per cercare di capirlo.
  Improvvisamente ne è certa. Non è sola.
Lui è qui .
Non importa come sia possibile, quello che conta è che  è qui.
E allora, come allungare questo attimo, che non sarà per sempre, come  comunicare. E’ possibile riudire la voce? Lei l’ode ancora, ne ricorda tutti gli accenti,  ne sente la profondità e quel modo particolare di pronunciare alcune consonanti.  Quei toni caldi, rassicuranti o quasi acuti nei momenti di rabbia. E sale la nostalgia anche per quelli; la rabbia, l’irritazione, le parole acuminate,  ma pur sempre la vita.
 “Odiavo litigare con te, ma se questo ti riporta anche solo un istante in vita, litighiamo. Furiosamente, dannatamente come non abbiamo mai fatto. Devono sentirsi le nostre urla infuriate per le strade, si devono accendere le luci di tutti. Che tutti  sentano, quello che dobbiamo gridarci, sputarci. Ma con te vivo, qui. Poi, quando avrò finito di piangere, ti potrò baciare, una volta, mille volte e sentire la tua pelle e quella dannatissima barba ispida, che mi graffia, ancora per favore, che mi graffia ancora.”
Questi ora sono i  pensieri impazziti di Maria.  Solo pensieri, ma quell’ aria leggera, pur senza vento, quel brivido, quella sensazione sulla pelle: solo pensiero,
“Ma lui è qui”.
 Maria sa leggere il passato, ma ora, che farne di questo attimo di presente, che non esiste, non c’è,
”ma lui è qui”
Lei  il presente non lo sa leggere e sente la paura di non poter afferrare quest’ attimo, di non poterlo bere, sorseggiare, centellinare come quell’aperitivo rosso, che lui preparava nelle sere d’inverno, con gli amici. Ed ecco le risa alle sue battute ancor più imprevedibili, data l’ apparenza così seria, così professionale. Rideva dunque anche lui?
 Ancora il passato, ma ora, che fare  ora, che dire.  Bisogna proprio parlare o forse basta il calore di questo attimo, il contatto di questo istante; è necessario parlare, per fermare la sensazione di questo brivido o sentirlo sulla pelle basta.
 E domani ? quando tutto sarà finito ci saranno i soliti rimpianti? avrei potuto fare, dire, urlare . 
Ma domani per quanto vicino, è già futuro e Maria non legge il futuro.
Intanto le poche nuvole nel cielo si sono dissolte e le stelle sono lì , tutte quelle previste per la notte con le loro posizioni, costellazioni, e tutti i pianeti con i loro satelliti. Notte di luglio chiara, stellata. Nell’osservatorio solo Maria o forse no, non solo lei . Forse le ombre dei suoi pensieri, dei suoi desideri, diventate improvvisamente solide, palpabili . E riaffiora una sensazione, quella del mare d’inverno, quando la spiaggia, delle migliaia di persone che l’affollavano in stagione, non ha più che i ricordi, che riemergono sotto forma di oggetti, i più improbabili, i più orribili, quelli buttati a mare per l’appunto. Plastiche inutili e inquietanti. Queste intorno a Maria però, non sono plastiche, inquietanti forse, struggenti sicuramente, ma certo, non c’e nulla di sintetico in queste sensazioni che la avvolgono come fa la nebbia in novembre, ma più dolorosamente. Naturali quindi ? soprannaturali forse.
E quindi il soprannaturale avvolge Maria. In questa notte, lei può ancora risentire ciò che ormai era stato archiviato come passato, può rivivere quegli attimi con lui.
 All’improvviso sa che cosa potrà succedere, ora, subito, se lo vorrà: sa che forse la chiave è nelle sue mani.
  Maria legge il passato, lo interpreta attraverso le stelle:  ecco, ora le è data la possibilità di rileggere ciò che loro due  furono, di interpretarlo, di ritrovare la felicità. Lui è lì, pronto ad aiutarla in questo compito. L’emozione le attanaglia la gola, mentre sente la sua presenza. Sente l’odore della pelle, di quell’ultimo bicchiere di vino. Vino bianco, aromatico, frizzante, inebriante. Che cosa rileggere e che cosa cancellare?
 Il loro primo incontro? Potrebbe non esserci mai stato. Il suo volto affonderebbe nelle migliaia di volti incontrati e dimenticati e con esso il dolore. Non si può soffrire per ciò che non è  mai stato. Non ci sarebbe mai stato,dunque, quel sorriso, mai quell’espressione beffarda, mai quegli occhi, che leggono il cuore:
“il mio cuore non ha mai battuto fino a far male per la gioia di quel primo appuntamento, e non sono mai stata così felice da aver paura di morire , così serena come chi ha visto la Luce, così arrabbiata da poter smuovere le montagne quando i tuoi occhi non erano nei miei”.
 Tutto questo può essere cancellato. Nessuna sensazione, nessun ricordo, nessun dolore.
 Il profumo è sempre più avvolgente, penetrante:  cancellare tutti i sentimenti di allora per annullare la pena di oggi .
Improvvisamente, un nuovo arcano, oltre l’incredibile, che sta già vivendo: non è più il volto di lui quello che le appare ora lì, presente, tangibile. E’la ragazza della Stella che lei ora vede, ed è suo, lo sguardo che si sovrappone a tutto il resto.
 Quello sguardo. Maria ora lo comprende pienamente ora che la stella sta pungendo anche lei, o meglio, la sta lacerando. “Non puoi afferrare il passato, lascia che scivoli su di te, che tocchi solo i tuoi pensieri, senza affondare”
E allora ancora un tuffo nel passato, ma no, non un tuffo. Un’immersione lenta, uno scivolare a velocità nulla, ma irrefrenabile.
 Ancora il mare, ma questa volta il profumo delle resine che dalla pineta arrivano a lei, sdraiata sull’acqua. Questa volta l’azzurro l’avvolge: mare, cielo la stringono, ma solo un po’, non c’è dolore, ma la certezza di essere parte del tutto. Serenità.
 Ecco  un’ombra piccola, all’orizzonte dei suoi pensieri, lontana, sfuocata. Non c’è fretta d’ingrandirla, sa bene chi è. E la lascia là, lontana, e intanto ne spia i movimenti, ne indovina i gesti, mai dimenticati. Non c’è dolore quando riconosce il suo passo, e quel modo di agitare le braccia per richiamare la sua attenzione . Non c’è dolore ora che le sue mani sono lì e quasi le può toccare. Tra poco, i suoi occhi: e lei potrà di nuovo  entrargli  nell’ anima.
 E finalmente eccoli di nuovo lì, uno di fronte all’altra, come già accadde. Tutto come allora: loro, il luogo, persino il vento è lo stesso e come allora li costringerà ad urlare se vorranno udirsi. Ma qui non s’ode suono alcuno. I gabbiani volano tutti assieme, ma silenziosamente, e appaiono ancora più leggeri , ancora più bravi a prendere il vento. I suoni non si trasmettono; al movimento delle labbra non corrisponde alcuna voce e le parole, le vecchie parole, sono cancellate.
Qui , in questa parte di universo è padrona la luce e con lei si può giocare per comunicare. Non suoni, ma colori dunque. E per un attimo Maria si abbandona al gioco, come un bambino prova le sillabe e compone le parole, così lei cerca le sfumature che daranno luce ai suoi pensieri. Finalmente è padrona del viola e ne assapora tutti i toni, poi coraggiosamente, compone con tutti i colori in un crescendo di sfumature, lampi, bagliori. E’ un arcobaleno la gioia infinita che prova; ha i riflessi di una preziosa seta rossa il sentimento che l’avvolge.
 E così lancia una serie di raggi, i più belli tra quelli a disposizione, composti come solo Cezanne nei suoi momenti migliori poteva fare. E radiazioni altrettanto preziose sono quelle che riceve in cambio lassù, dove il colore non è decorazione ma essenza. Lassù, nel mondo della luce, tra lampi e bagliori,  Maria sente il suo pensiero sciogliersi, frantumarsi come riflesso da un mosaico di specchi.
 Non c’ è lacerazione, nessun affanno: i  ricordi sfumano, come l’azzurro all’orizzonte fra mare e cielo, e anche lui,  prima quasi tangibile, si perde, trasformato in ombra sottile, pronto a mischiarsi ai frammenti dei suoi pensieri, in un legame, che mai più potrà sciogliersi.
  Maria sa che ora dovrà scegliere:  diventare luce o tornare là, dove ancora si può udire.
 Per un attimo, in uno dei frammenti di specchio, in cui si è scomposto il suo pensiero, vede riflessi gli occhi tristi della ragazza della stella. Ancora, quegli occhi l’aiutano a pensare.
Potrebbe ritornare al quotidiano e guardare le stelle, la notte, spiandole con i suoi strumenti. Il passato, quel passato, non farà più male: lei ritornerà indietro con il pensiero e ricorderà, senza lacrime.
 Ma quegli occhi, quegli occhi riflessi, quelli della ragazza con la Stella, sono ancora tristi: neppure per un attimo, anche nel turbine di impossibile che  ha avvolto Maria, neanche per un breve istante, la fanciulla ha cambiato espressione. Neppure il cenno di un  sorriso, un bagliore d’intesa, nulla. In quegli istanti di puro irrazionale, anche questo sarebbe potuto accadere. Eppure no, l’occhio azzurro è rimasto così, immobile, pieno di quelle  lacrime che da secoli trattiene.
Maria ora sa che non poteva essere altrimenti. Sa che quello sguardo esprime l’infinita angoscia di essere solo immagine, di non essere se non il riflesso di quelle miriadi di particelle, che possono far soffrire, far scorrere quelle lacrime una volta, milioni di volte,  ma che possono anche condurre alla Luce.
E così Maria sceglie. E’pronta a ritornare quella che fu: miriadi di particelle, fascio di radiazioni e rimanere lì, a comporre colori. I pensieri sono in pace e i suoi, sono messaggi d’amore e li comporrà all’infinito per chi vorrà ascoltarla.
Il giovane ricercatore la trovò così al mattino , seduta sulla sua sedia girevole, il computer acceso con la foto sul cuore e il tarocco lì, sulla scrivania,.  La guardò, e dei tanti pensieri che colgono quando la morte appare, inattesa, uno fu il più forte e parlava di vita:
  “Le viole, le sue viole, non devono appassire”.



unpodichimica


 Questo post partecipa al 3° Carnevale della Letteratura ospitato da Maria Cuccaro sul suo blog Skipblog